Rosalind la signora del DNA
La storia vera di una donna determinata: Rosalind nasce a Londra nel 1920. All’epoca le bambine, e le donne, non avevano molte prospettive per il loro futuro diverse dal diventare buone mogli e madri. Ma Rosalind non si arrese a questo destino e difese con energia il suo diritto allo studio scientifico. Era affascinata dalla cristallografia a raggi X che permetteva fra l’altro lo studio del Dna di cui ancora non erano stati svelati i misteri. Il Nobel per la scoperta della doppia elica del Dna venne assegnato a tre uomini quattro anni dopo la sua morte ma per tale scoperta era stato determinante il suo contributo, nonostante le difficoltà di lavoro che le toccò affrontare e l’ostilità dei colleghi uomini che non tolleravano la sua grande intelligenza e le sue capacità.


Quando le maestre annunciano che verrà fatta un a lezione sulla Costituzione, i bambini sbuffano pensando ad una cosa noiosa. Poi in classe arriva Angela, una donna cieca che li invita ad una gita nel quartiere. È l’occasione per Diego e la sua classe, per ripercorrere i punti fondamentali della nostra Costituzione che parla di cose concrete: per strada, in classe, ai giardini pubblici, dal fornaio, in piazza o di fronte a un monumento, tutto è regolato dalla nostra Carta dei diritti.
“Sei fuori, ti dicono, quando invece sei chiuso dentro una gabbia che nessuno ha voglia di aprire. Sei strano, ti dicono, non sei come gli altri”. Bea ha tredici anni, è timida, brava a scuola, amante dei libri e, in particolar modo, delle storie di paura, isolata dai compagni che la considerano una secchiona. Così cerca di essere invisibile poi in classe arriva un ragazzino con disabilità, Glauco, esuberante e scintillante come il suo nome. “I suoi genitori lo portavano dappertutto, senza paura […] non volevano aggiustargli il mondo intorno, no, volevano solo insegnargli un pochino come muoversi nel mondo. E volevano che noi ragazzi dessimo una mano”. E per Bea le cose cambiano, comincia a farsi domande, a guardarsi intorno e a prendere posizione.
“A trentanove anni ho scoperto di non sapere chi fossi realmente […] la diagnosi è stata per me una liberazione, finalmente ho capito perché fin a quel momento mi era sembrato di vivere su un altro pianeta […] essere riuscito a dare un nome al mio modo di essere mi ha dato la possibilità di rientrare in contatto con la persona che sono sempre stato ma che, per timore di essere rifiutato, ho costantemente cercato di nascondere”. L’autore, partendo dalla sua esperienza, racconta l’autismo facendo emergere le difficoltà vissute in prima persona, le crisi che ciclicamente intervengono, le loro cause e conseguenze, l’incapacità di comprendere un mondo strutturato e regolato da e per persone neurotipiche.
Una riflessione sull’inclusione lavorativa e sulla contraddizione che la rende “quasi un ossimoro, ossia la reale sostenibilità del processo inclusivo in un ecosistema aziendale spesso pervaso da ideali che premiano la competitività e misurano con strumenti standardizzati il valore della persona in base alla sua produttività”. L’autore suggerisce un superamento del concetto di inclusione, proponendo di sostituirlo con quello di “convivenza delle differenze” che mette al centro la persona e invita ad affrontare le criticità strutturali di un sistema basato sulla disuguaglianza e a pensare la differenza come normalità.